domenica 30 gennaio 2011

Cancro - le cure proibite



Ieri sera ho visto questo film-documentario di Massimo Mazzucco e devo dire che mi ha fatto pensare molto.
"Il film NON intende promuovere la validità di una qualunque cura rispetto ad altre, ne vuole suggerire l'abbandono di eventuali terapie in corso a favore di altre. È un lavoro di carattere puramente storico/informativo, non scientifico e non intende in ogni caso essere esaustivo.".

Gli argomenti trattati sono essenzialmente questi:

PRIMA PARTE: LE TERAPIE UFFICIALI

STATISTICHE Un secolo fa veniva colpita dal cancro una persona su 20. Oggi tocca ad una persona su 3.
LA TEORIA UFFICIALE La stessa di 50 anni fa.
LA TRINITÀ INTOCCABILE Chirurgia, chemio e radioterapia.
LA GUERRA DEI DOTTORI Allopatici contro empirici, ovvero chimica contro natura.
LA VITTORIA DELL'INDUSTRIA Come i banchieri si impadronirono della salute del mondo.
BIG PHARMA Un monopolio incontrastato.

SECONDA PARTE: LE CURE NATURALI

ESSIAC Storia di Renè Caisse.
HOXSEY Il ciarlatano che curava li cancro.
MAX GERSON Il padre di tutte le diete.
MARIJUANA La vera storia della proibizione..
GERD HAMER La Nuova Medicina Germanica.
WILHELM REICH Cancro e Orgone.
ALTRI METODI CONOSCIUTI Cartilagine di Squalo, Iscador, Laetrile (B-17), ecc.
TULLIO SIMONCINI L'ipotesi fungina.

La cosa che mi ha colpito di più è stata la storia dell'infermiera Renè Caisse e del petroliere Harry Hoxsey. Entrambi avevano una ricetta di erbe che era in grado di curare il cancro, e le prove stavano in tutti i loro pazienti guariti. Nonostante REGALASSERO questa tisana a tutte le persone che lo chiedevano hanno dovuto chiudere baracca... Mi sembra veramente assurdo che una persona non possa regalare una tisana di erbe a chi la desidera...


Certe persone sono state strappate dai libri di storia. Anzi, non ci sono mai entrate.
E altre raccontano da anni, raccontano da sempre, in convegni, simposi, lezioni, studi televisivi i dogmi diventati verità inconfutabile.
Come quella per cui “la chemioterapia e i farmaci sono l’unica vero percorso per cercare di affrontare cancro e tumori.. non ne è stato mai trovato un altro di valido..”.
Noterete come coloro che sostengono il contrario non sono stati confutati in un dibattito franco e aperto, attraverso scambi di conoscenza e riflessioni.. ma ridicolizzati e stigmatizzati.

La nostra mente è complice. Come potremmo mai credere che decenni di strutture, investimenti supertecnologici, raccolte fondi miliardarie, telethon, ecc.. hanno fallito o hanno ottenuto solo vaghi risultati, possa di punto in bianco riuscirci un percorso o un terapia che non costa più di tanto, non coinvolge apparati, e magari si fonda su capacità innate di autoguarigione o su insegnamenti e pratiche alla portata di tutti?

E invece ci hanno sbarrato la porta all’imprevedibile e al ribaltamento, con una bella scritta sopra a spaventare i viaggiatori.. NON CI SONO ALTERNATIVE!

Non è tanto importante che crediate alla bontà della cura descritta in queste due storie che leggerete, ma che teniate presente che tutte le volte che persone e terapie sono emerse potentemente ad incrinare ortodossie ed estabilishment, la reazione è stata sempre durissima.
Ci sono persone guarite dal cancro seguendo altri percorsi. Persone studiate e documentate.
Guardate questo film e soprattutto pensate!

lunedì 17 gennaio 2011

La bufala del nucleare



A seguito della conclamata ingannevolezza mediatica dello spot della Campagna TV del Forum Nucleare Italiano, qualcuno ha deciso di riequilibrare appena un po' il dibattito attraverso questo contro-spot.

Il video sotto invece è la prima parte di "Uranium : le scandale de la France contaminée". La versione italiana del documento trasmesso da France3 nel 2009 che parla delle scorie radioattive utilizzate per la costruzione delle infrastrutture sul suolo francese.



"E tu sei a favore o contro l'energia nucleare? O non hai ancora una posizione?".

lunedì 3 gennaio 2011

Una nuova proprietà fisica dell'universo

Se sognate di demolire un edificio, come si vede in televisione nelle demolizioni controllate, ma non disponete di nessun genere di esplosivi ora tutto questo è possibile!

Avete problemi col vicino? La vostra ragazza\o via ha lasciato\a? Il vostro capo vi ha licenziato? Se volete vendicarvi di un torto subito da qualcuno oggi potete farlo senza troppi problemi e in un modo veramente impressionante distruggendo la sua casa!

Il National Institute of Standards and Technology (NIST) ha scoperto una nuova "proprietà fisica dell'universo" grazie alla quale delle "fiamme irregolari" in un'edificio possono causare un "crollo simmetrico e completo della struttura".

Cosa aspettate? Armatevi di fiammiferi e benzina e iniziate a bruciare le case! lo spettacolo è assicurato!!



Se una versione ufficiale come quella dell’11 settembre fa acqua da tutte le parti e cozza addirittura contro le leggi della fisica, la propaganda ci mette una “pezza” inventando nuove proprietà della materia. Purtroppo non è uno scherzo...

Il sergente Romano

Dal libro "Terroni" di Pino Aprile



Al Sud c'erano i briganti; i piemontesi li eliminarono (grazie, neh?). È quello che avevo sempre creduto e mi era stato insegnato, ma quasi di sfuggita e malavoglia, pure a scuola, come non fosse il caso di rinnovare un'antica vergogna. E non mi dispiaceva: avevo visto le foto seppiate dei cadaveri di malandrini e delle loro donne, nudi come selvaggi (ma denudati dai civilizzatori); le teste mozzate da inviare a lombrosiani ricercatori di caratteri e fisionomia del perfetto delinquente (meridionale, ovvio, per natura). Nel film ci era toccata la parte del cattivo. Avvertivamo, noi studentelli del Sud, il fastidio di aver risposto alla gloriosa epopea garibaldina, con una masnada di grassatori e tagliaborse, dai cappellacci a cono, come le streghe, e schioppo a trombone in spalla: trogloditi alti uno e cinquanta, scuri di pelle e di negro crine, fronte bassa, occhio torvo e spento (succede, se fotografi i morti); un po' Barabba, un po' Giuda (31 scudi: uno in più, fu la buonuscita che l'Italia unita diede ai garibaldini meridionali, quando se ne liberò, perché non le servivano più). Vuoi mettere lui? Un Gesù Cristo armato, il biondo capello al vento dei vincitori, con l'eccentricità del poncho, bianco destriero, barba dorata e occhio ceruleo che mira oltre l'orizzonte, a quel futuro tricolore illuminato dai riflessi della sua spada (l'arma dei cavalieri) puntata contro il... sole. Quello è un uomo! E se il libro di storia ti chiede da che parte vuoi stare, tu che gli dici: sono meridionale come il brigante o "italiano" come Lui?

Eppure, avrei potuto capire molto prima come stavano davvero le cose, perché non c'erano condanna e vergogna nel tono con cui mio padre mi indicò il luogo in cui era stato esposto, a Gioia del Colle, il corpo del Sergente Romano, nostro compaesano. Pareva narrasse quasi di un eroe, non di un brigante; e io non compresi il valore di quella incongruenza. Non feci domande, tanto ero lontano dall'idea che ci fosse qualcosa da aggiungere o correggere riguardo a quel che ci era stato consegnato come verità. Né mio padre disse altro: era restìo a parlare di cose truci. Della guerra, del campo di concentramento, per dire, mi confidò poche cose solo alcuni anni prima di morire.

E non aveva torto sul Sergente Romano. Lo scoprii quando le letture non scolastiche di storia fecero sapere anche a me che l'Unità d'Italia a spese del Sud non debellò il "brigantaggio", ma lo generò, quale fioritura opportunistica di delinquenti in una stagione di grande illegittimità e confusione; come guerra civile, fra i cafoni derubati delle terre demaniali liberamente coltivabili e i galantuomini che le avevano usurpate; e come guerriglia di ex militari napoletani, patrioti e cittadini che non accettarono la fine delle libertà, del benessere e dei diritti (pur criticabili per quantità e qualità, come sempre, ovunque) goduti sotto il re Borbone delle Due Sicilie e sostituiti da un regime di terrore, spoliazione e arbitrio: quel «sistema di sangue», secondo Nino Bixio, il vice di Garibaldi, «inaugurato nel Mezzogiorno» da occupanti che parlavano francese o dialetti mai uditi.

Soldati del re napoletano, sudditi legittimisti, cafoni impoveriti e veri briganti finirono insieme e questo li rese, per l'invasore e i suoi libri di storia, tutti briganti. E tale fu considerato chiunque fosse sospettato di simpatia, conoscenza, consanguineità (brigante lui? Brigante il padre, brigantessa la madre, brigante il figlio della sorella, brigantessa pure quella...). Perché non si mantennero distinti soldati e ladroni? Nel 1979, per un reportage, raggiunsi i guerriglieri khmer rossi nella giungla. Al pranzo "ufficiale", con il governo alla macchia della Cambogia invasa dai vietnamiti, ebbi accanto il ministro della Scienza e tecnologia: ex imprenditore, era stato l'Agnelli o il Moratti del suo paese. L'intera sua famiglia era stata soppressa dai comunisti-terroristi a tavola e al governo con lui. «Ma come fa a starci?» gli chiesi. «L'alternativa sono i vietnamiti che sterminano quel che resta del mio popolo, dopo il massacro condotto da chi ha ucciso i miei» rispose (in perfetto italiano, oltretutto).

«Finora avevamo i briganti» scrisse Vincenzo Padula, cronista dell'epoca, liberale, favorevole all'impresa unitaria, in Calabria. Prima e dopo l'unità, «ora abbiamo il brigantaggio; tra l'una e l'altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non li ajuta, quando si ruba per vivere o morire con la pancia piena» (ma questo non avveniva solo al Sud); «e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo.» E se non è così, il ribelle non dura, faceva osservare, nel 1865, un legittimista, Tommaso Cava de Guéva (lo riferisce Francesco Mario Agnoli in Dossier Brigantaggio): nel 1849, in un mese, Garibaldi rimase solo e in fuga, negli Stati pontifici; Pisacane e i suoi trecento giovani e forti furono fatti a pezzi con roncole e forconi dalla popolazione; i fratelli Bandiera e compagni, in quattro giorni erano dinanzi al plotone d'esecuzione. E sulla qualità dei briganti, il marchese di Villamarina avvertiva Cavour che «le masse» erano guidate da «ufficiali e sottufficiali» borbonici. (Da duecento ex militari napoletani era composta la "Squadra Ciccone", che rimase imprendibile per otto anni; nel 1868, un'imponente formazione piemontese la circondò e sterminò.)

Il Sergente Romano fu a un passo dal divenire un Garibaldi alla rovescia: era accolto da liberatore nelle cittadine che conquistava, sconfiggendo guardie nazionali, carabinieri e soldati piemontesi; riuscì a inquadrare militarmente, al suo comando, le principali formazioni irregolari che battevano la Puglia, e condusse operazioni con quelle di altre regioni; ai suoi ordini (a proposito di briganti) c'erano Michele Clericuzio, per anni istruttore nei reggimenti borbonici, e tanti altri provenienti dalle disciolte armi napoletane: soldati di linea, cacciatori, granatieri, gendarmi reali, dragoni, lancieri. All'inizio, Romano arruolò solo ex commilitoni, ma sapeva di non poter scegliere i suoi uomini; l'impresa che tentò, e quasi gli riuscì, fu di trasformare il brigantaggio in vera guerra civile e legittimista. Nel suo diario, racconta che «un dì si presentarono meco tredici masnadieri», sedicenti «difensori di Francesco II e della santa Chiesa». Salvo scoprire che «si permettevano pure fare i furti senza la mia conoscenza dove io ordinava di andare ordinatamente e militarmente con educazione»; e che borbottavano: «Siamo chiamati ladri e dobbiamo rubare». Lui, per darsi alla macchia, spese i suoi risparmi: mille piastre.

Gli occupanti dovettero impiegare migliaia fra soldati, carabinieri e guardie nazionali, per riuscire a isolare l'ex ufficiale, catturarlo e ucciderlo. Un cronista della «Gazette de France» raccontò, mesi dopo: «A Gioia, un contadino mi indicò il luogo dove i vincitori esposero con orgoglio, per otto giorni, il cadavere fatto a pezzi. Tutti gli abitanti del paese vollero contemplare un'ultima volta gli avanzi irriconoscibili dell'eroico brigante; si andava là, come a un pellegrinaggio santificato dal martirio; gli uomini si scoprivano, le donne si inginocchiavano, quasi tutti piangevano: egli portava nella tomba il cordoglio e l'ammirazione dei suoi conterranei».

Il popolo non credette alla sua morte. C'era chi giurava di averlo incontrato nei boschi: «È vivo. Tornerà». Come re Artù. La leggenda dice che a morire fu un altro; lui era invulnerabile e immortale, per la speciale medaglia mandatagli dal papa, come scrisse ai propri genitori Carlo Gastaldi, che disertò l'esercito piemontese per unirsi a lui (non fu il solo "soldato blu" a passare con gli "apache") e ne divenne miglior amico e segretario-luogotenente. Da atti processuali dell'epoca si apprende che «nell'esaltata immaginazione delle moltitudini», il Sergente Romano «sarebbe vissuto, per molti anni ancora, occulto, solitario e ramingo». E mio padre ne doveva aver udito parlare in quei termini: da messia, non da delinquente. A lui, persone vicine ai fatti narrarono il coraggio di un uomo; a me, i libri di storia, il disonore di troppi ribaldi e del popolo che li espresse. Dall'orgoglio alla vergogna. Sono sempre più numerosi, al Sud, quelli che ripercorrono questo rio all'incontrario, per ritrovare, con la verità sull'origine della loro storia unitaria, la ragione di esserne fieri. E uscire dallo stato di minorità. [...]

Romano aveva 21 anni quando il suo paese fu invaso: un ritratto lo mostra bello e fiero in divisa, barba curata, capelli folti. Figlio di un ricco allevatore della Murgia, nell'esercito crebbe in cultura, stile, grado. Era una persona perbene e lo riconoscevano persino i compilatori dei bollettini di guerra piemontesi. Il suo comportamento nell'esercito borbonico era stato esemplare e quello di cittadino «italiano», dopo la conquista piemontese del Sud, non fu da meno: la sua fedina penale rimase immacolata, in un tempo in cui un debole entusiasmo per il nuovo re bastava per ritrovarsi in carcere, senza necessariamente essere accusati di qualcosa. Tanto che lo storico Antonio Lucarelli, suo principale biografo, scrive che fra la "ciurmaglia" degli altri oppositori armati all'invasione, il Sergente si distingueva per «naturale ingegno, pertinace volontà, indole intraprendente» ma soprattutto «per una certa rudimentale cultura e per assenza di precedenti penali» (Il sergente Romano. Brigantaggio politico in Puglia dopo il 1860).

Da partigiano, fu imprendibile, coraggioso; e spietato, se occorreva. Nel 1862, nel Brindisino, due squadriglie di guardia nazionale di Cellino San Marco e San Pietro Vernotico e un plotone di carabinieri intercettarono i "briganti" e andarono all'assalto. Salvo fuggire, appena videro che si trattava del Sergente Romano. Una dozzina furono presi e "processati" dall'ex ufficiale borbonico, che aveva una efficientissima rete di informatori («Giuseppe Mauro, tu avevi quattro carlini al giorno come spia, sotto Francesco, e ora ne hai tre sotto Vittorio Emanuele.» Fucilato). Un milite, Vitantonio Donadeo, invocò la Madonna del Carmine e l'arma che doveva finirlo s'inceppò. «Alzati, che tu sei salvo» lo graziò Romano, anche lui devoto della Vergine del Carmine, per la quale scriveva preghiere.

Era abile in campo aperto, ma più in azioni da commando. Le guardie civiche di Alberobello, «perlustrando le finitime selva», scoprirono una sua polveriera, la sequestrarono, catturarono il guardiano. Lui, con una trentina dei suoi, assaltò la caserma, liberò il prigioniero, recuperò le munizioni sequestrate, portò via bandiere, tamburo e armi delle guardie. E le guardie. Che liberò fuori paese. Lo stupore partorì un esclamativo nel rapporto del prefetto: tutto «in un quarto d'ora!».

Ma l'impresa che ne aveva rivelato le capacità e l'audacia era stata la riconquista di Gioia del Colle, ventimila abitanti. Un paese, il suo (e il mio), che cova furori (oggi, parrebbe, e per fortuna, sedati). Ogni sessant'anni circa, la passione politica vi partoriva una strage intestina. Lucarelli, nato in un paese vicino, scrive che gli abitanti di Gioia arrivano a tali macelli, per «risolutezza di carattere, insofferenza ai soprusi (...) l'impulso dell'animo impetuoso e ribelle» e «sostengono i loro principi e la loro fede con acerrima gagliardia». Nel 1799, lo scontro fu fra giacobini e sanfedisti; a capo degli opposti partiti, due fratelli, Pasquale (giurista e letterato) e Cesare Soria: avversari cercati casa per casa, saccheggi, uccisioni, persone arse vive, danze degli assassini. Un sabba di sangue. Nel 1861, l'opposizione era fra legittimisti borbonici e unitaristi, con tutte le sfumature del caso: molti, favorevoli all'idea dell'Italia una, ne ebbero disgusto quando videro che si riduceva a oppressione e rapina del Sud («Bella è l'unione nazionale,» ebbe la disgrazia di dire ad alta voce il mite barone e giurista Gianantonio Molignani «ma noi saremo i pezzenti dell'Italia unita». E si guadagnò il carcere).

Dopo l'uccisione di un caporale della guardia nazionale, il Comitato di sicurezza di Gioia decise di farla finita con Romano e i suoi uomini; d'accordo con il prefetto, unì le proprie forze (militi e cittadini armati) a quelle di altri quattro popolosi centri e mosse sul bosco di Vallata. Il Sergente seppe tutto subito, grazie al suo servizio di spionaggio. E, pressato dai suoi, invece di fuggire, attaccò Gioia, aggirando la colonna che gli dava la caccia. Il paese era ben difeso, anche da un cannone che sparava a mitraglia, ma l'impresa riuscì e il popolo seguì il libertador al grido di «Viva Francesco II! Abbasso Vittorio!». Dall'altra parte, soprattutto professionisti, proprietari, artigiani, persino preti che impugnavano fucili. Si combatté strada per strada, più o meno: borghesi contro cafoni.

Il peggio accadde nelle retrovie: gli oppressi di ieri andarono a caccia dei loro pari e vicini di casa divenuti oppressori o presunti tali. Giovani garibaldini e guardie nazionali furono tratti dalle loro abitazioni e linciati in strada. Un'orgia di violenza, seppur contenuta nei numeri, visto quel che accadde dopo: in sette vennero macellati dalla folla. Ma su Gioia, ormai, convergevano dalle cittadine prossime e dal capoluogo, centinaia di uomini di rinforzo per gli assediati: carabinieri, militari, milizie locali, cittadini di buona volontà e buona fucileria. Il Sergente riuscì a sgusciare, con i suoi, dalla tenaglia in cui le truppe sopraggiunte chiusero il paese.

Di quel che accadde dopo, le cronache narrano poco, perché lo fecero i vincitori, ma potrebbero bastare le cifre: l'orgia ricominciò, con aggressori e vittime a ruoli invertiti; i militari fucilavano su semplice indicazione dei cittadini, a lotti di decine o singoli; altri "civili" provvedevano da soli (mentre nel Regno delle Due Sicilie non solo era sacro il diritto alla difesa dell'imputato, ma da quasi cento anni c'era già l'obbligo, per i magistrati, di motivare le loro sentenze). Quei sette linciati dal popolo furono vendicati dal resto del popolo, con qualche eccesso, se alla fine della mattanza si contarono oltre centocinquanta cadaveri. Una rappresaglia venti a uno: manco i nazisti alle Fosse Ardeatine.